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Ventiquattro

LO SCONTRO TRA I NEOFASCISTI E LA SINISTRA ARMATA

BOMBE E OMICIDI POLITICI: Le inquietudini che condussero alla violenza armata nell'Italia di cinquant'anni fa

Uno dei partecipanti al conflitto politico armato fu anche Sergio Segio, esponente della sinistra nato a Pola e cresciuto nella periferia di Milano: questa sera, al pubblico della Fiera del Libro racconterà la sua esperienza


 
19 min
Silvio Forza
Via Fani a Roma, luogo del sequestro di Aldo Moro

Uno dei partecipanti al conflitto politico armato fu anche Sergio Segio, esponente della sinistra nato a Pola e cresciuto nella periferia di Milano: questa sera, al pubblico della Fiera del Libro racconterà la sua esperienza

Nella cronaca dei grandi media dell’epoca, così come nella narrazione storica predominante e istituzionale, il fenomeno dello scontro politico armato nell’Italia dal 1969 ai primi Anni Ottanta del secolo scorso, noti anche come “anni di piombo”, è stato ed è ancora definito “terrorismo”. Etichetta, questa, peraltro semplicistica rispetto alla complessità del fenomeno, che molti – e tra questi anche coloro i quali non ne sono stati protagonisti diretti, ma autori di analisi esterne – preferiscono evitare, proponendo definizioni alternative quali “guerra civile a bassa intensità”, “conflitto politico-armato”, “stagione della violenza politica organizzata”. Quelli, invece, che in quella stagione sono stati coinvolti, specie a sinistra, parlano di  “lotta armata rivoluzionaria” e “conflitto di classe armato”.

L’aspetto terminologico, non è per nulla di rilievo secondario né è, tantomeno, un aspetto unicamente formale della descrizione del fenomeno. Esso va a toccare la sostanza, cioè le ragioni, le motivazioni, le intenzioni e non soltanto le percezioni per le quali in Italia si era giunti a usare bombe e armi da sparo.

Anticipando ciò che andremo a descrivere più avanti, diciamo subito che c’è stata una violenza della destra neofascista e una violenza della sinistra comunista extraparlamentare. L’ex presidente della Repubblica italiana Francesco Cossiga, che era stato anche ministro degli interni e che certamente di sinistra non era, ebbe a dire: “aveva ragione Moro (l’ex presidente del partito della Democrazia cristiana ucciso dalle Brigate Rosse, N.d.R.): ci trovavamo davanti a un grosso scoppio di eversione. Non di terrorismo. Il terrorismo ha una matrice anarchica che punta sul valore dimostrativo di un attentato o di una strage. L’eversione di sinistra non ha mai fatto stragi. Ci trovavamo davanti a una sovversione. A un fenomeno politico. A un capitolo della storia politica del Paese”. In Italia, il dibattito sulla questione terminologica, rimane ancora aperto.

Sergio Segio di Pola

Tra i protagonisti della lotta armata, sul fronte di sinistra filocomunista, figura anche Sergio Segio, nato a Pola, ma cresciuto a Milano sin dalla prima infanzia. Alle 20 di stasera alla Fiera del libro presenterà il suo libro “Miccia corta”. Sarà un’occasione per sentire il racconto di una vita fatta di passioni e di ideali naufragati in bagni di cruda realtà, di scelta convinte e di ripensamenti, di tramonti confusi con albe, ma anche di nuove albe su di orizzonti diversi, nuovi, sempre impegnativi ma meno tormentati. A breve pubblicheremo anche l’intervista che abbiamo realizzato con lui.

Migliaia di azioni armate, 279 morti

Quello del terrorismo / lotta armata, in cui la passione politica invece di produrre il cambiamento (in meglio) del mondo è andata ad arenarsi nell’irreversibilità del lutto, è stato un periodo relativamente lungo di forte contrapposizione ideologica, violenza politica e confronto armato. In quindici anni ha fatto registrare circa migliaia tra azioni armate e attentati, provocando, nella fase più acuta (a partire dal 1969), 279 morti. Di questi, 151 sono stati opera della violenza di destra, 128 di quella di sinistra. Con una differenza sostanziale: la destra neofascista ha seminato morte provocando stragi, colpendo alla cieca cittadini che si trovavano in banca, in piazza, sui treni. La sinistra ha battuto invece la strada degli omicidi politici, evitando, negli intenti, di provocare vittime casuali e collaterali. Che, tuttavia, ci sono state.

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C’è da precisare inoltre che la fase acuta della violenza era stata preceduta da un periodo, meno tumultuoso ma altrettanto luttuoso e che va orientativamente da 1960 al 1969, in cui l’Italia assiste alla violenza di stato, con le forze dell’ordine che uccidono moltissimi tra manifestanti e operai in sciopero. Una statistica ufficiale non esiste, il numero varia tra le 90 e le 171 persone, dipendenteente dalla fonti. Tutto ciò è avvenuto davanti agli occhi di una magistratura accondiscendente, il che vuol dire che all'epoca la polizia sparava con estrema facilità.

Va, inoltre, dato rilievo al fatto che dal 1969 al 1973 il 95% degli attentati e degli atti di violenza politica sono stati opera della destra neofascista, l’85% nel 1974 e il 78% nel 1975. Solo in quel momento subentrerà la decisa risposta armata da parte della sinistra.

Nel mare di dati statistici che si potrebbero estrarre da quegli anni tormentati, sono indicativi pure i seguenti: sarebbero tra 80 e 90 i membri delle forze dell’ordine (poliziotti e carabinieri) che hanno perso la vita, 68 i militanti di sinistra e una trentina quelli di destra quelli rimasti uccisi. Tra sei e settemila e le persone finite in carcere per periodi più o meno lunghi.

Dalla protesta di piazza alla violenza armata

Negli anni Sessanta e Settanta, l’Italia era un paese in cui le contrapposizioni sociali, le diversità di vedute sulla politica interna e quella internazionale, ma in primo luogo la posizione della classe operaia, avevano fatto scendere la gente a protestare intensamente nelle strade e nelle piazze. Ben presto, oltre alla deriva nella violenza che prese ad avvelenare cortei e manifestazioni che in origine volevano essere pacifici, oltre agli assalti, ai pestaggi, alle missioni punitive e ai sequestri (a sfondo politico) di persona, prima si inizia a sparare alle gambe degli avversari politici, poi si giunge agli attentati, alle stragi nelle piazze e sui treni, agli omicidi.

Vittime degli omicidi politici sono stati poliziotti, carabinieri, magistrati, giornalisti, dirigenti d’azienda, traditori interni agli stessi schieramenti della lotta armata, consulenti dello stato, addirittura delegati di fabbrica e sindacalisti. E poi gli uomini politici, primo fra tutti il presidente della Democrazia Cristiana (e tante volte Presidente del Consiglio o ministro del governo) Aldo Moro, sequestrato dalle Brigate Rosse il 16 marzo del 1978 (“prelevato” nell’attentato di via Fani a Roma, dopo che erano stati uccisi tutti i cinque membri della sua scorta) e “giustiziato”, dopo un “processo del popolo” (comunque clandestino e illegittimo) il 9 maggio dello stesso anno e fatto ritrovare in una Renault 4 rossa in via Caetani nel centro di Roma, in un punto quasi equidistante dalle sedi nazionali della Democrazia cristiana e del Partito Comunista Italiano, i due partiti politici più forti e votati dell’epoca.

Aldo Moro nella "prigione del popolo" delle BR

Il nemico da abbattere era lo stato

Perché lo scontro politico in Italia si era radicalizzato al punto da far impugnare, a molti, le armi, facendo scorrere il sangue nelle strade, nelle piazze, sui treni, nelle “prigioni del popolo”? Un utopia? Un allucinazione collettiva? Il fenomeno è estremamente complesso, ma in sintesi si potrebbe dire che il terrorismo / lotta armata / insurrezione in Italia è stato condotto, come anticipato, da gruppi armati di estrema sinistra e di estrema destra contro uno stato percepito come un nemico da abbattere. Anche con le armi.

Chi lo attaccava da destra (i neofascisti), lo vedeva debole, corrotto, incapace di garantire ordine. All’ordinamento parlamentare pluripartitico e democratico i neofascisti avrebbero preferito un regime autoritario, libero di sfornare leggi speciali, con la riduzione delle libertà costituzionali.

Chi invece vi si opponeva da sinistra vedeva nello stato e nelle sue forze dell’ordine, all’epoca violente e repressive, uno strumento di oppressione della classe dominante, una “dittatura borghese” mascherata da democrazia. La lotta politica del tempo aveva coinvolto anche gli anarchici che tuttavia non presero parte allo scontro politico armato.

Rientra nell’ordine delle cose che, come conseguenza dell’attacco allo stato ma con ragioni estremamente diverse, si sia verificato anche il confronto diretto e violento tra militanti di destra e quelli di sinistra.

La proliferazione dei gruppi armati

La complessità del fenomeno e la stratificazione multipla di idee, programmi d’azione (anche militari) e strategie è dimostrata dalla serie infinita di sigle che contraddistinsero i vari nuclei armati. A destra c’erano Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Ordine Nero, i Nuclei Armati Rivoluzionari, noti come NAR.

A sinistra, invece, c’era stata una vera e propria proliferazione di gruppi e di sigle. Sviluppatesi dall’esodo dal Partito comunista italiano e dal sindacato di riferimento (CGIL), giudicati troppo inclini alle riforme socialdemocratiche e troppo poco rivoluzionari, nel 1970 nascono le Brigate Rosse che manterranno comunque un modo di operare partitico (il “partito armato”) e, per certi versi, quasi elitario o, se non altro d’avanguardia, rispetto alla classe operaia.

Nel 1976, da quella che era stata definita la “sinistra extraparlamentare” e da movimenti come “Potere operaio” e “Lotta continua”, prende vita Prima Linea, che assume il nome dalla prima file dei cortei dei manifestanti: rimarrà sempre intrinseca a quello che era stato definito il “movimento”, a contatto diretto con gli operai, gli studenti, il proletariato dei quartieri popolari. Tentando di non operare, a differenza delle Brigate Rosse, in clandestinità.

Le BR e PL si riveleranno i due gruppi armati più forti e incisivi. Ma c’erano anche i Nuclei Armati Proletari (NAP), le Formazioni Comuniste Combattenti (FCC), le Cellule Comuniste Combattenti (CCC), i Proletari Armati per il Comunismo (PAC) e molti altre ancora, alcune di essi confluiti in Prima Linea.

Il contesto in cui la protesta diventa violenza armata

Per tentare di capire, senza per questo voler giustificare, il fenomeno del terrorismo (o insurrezione armata) in Italia, si deve tener conto di alcuni fattori fondamentali. Ma prima di vederli, non si deve dimenticare che ci stiamo riferendo a una stagione che ha provocato dolore e morte, per cui nell’esplicare determinate ragioni si deve farlo sempre nel rispetto del dolore dei parenti di chi è caduto vittima della lotta armata.

Il primo va individuato nella posizione e nell’autocoscienza della classe operaia italiana, che in quegli anni da supina e rassegnata ad adeguarsi ai dettami dei padroni, diventava socialmente reattiva.

Negli stati dell’area sovietica dell’Europa dell’Est, la classe operaia (indipendentemente se da una prospettiva odierna si valuti che essa sia stata privilegiata o, al contrario, immersa nel fraintendimento e nella catastrofe epocale del miraggio del socialismo / comunismo applicato) era stata anestetizzata dal dogma di regime imposto dal Partito comunista dominante per il quale, voltarianente (parola di Pangloss) “tutto andava per il meglio nel migliore dei mondi possibili”. Si darà una scossa solo negli Ottanta in Polonia con Solidarnost e nel Kossovo, con la protesta ei minatori.

In Italia invece – ancor più che in Francia e in Germania dove, a testimonianza della tensione globale dell’epoca, si registreranno pure forme importanti di lotta armata di sinistra con i gruppi Action Directe e, rispettivamente, la RAF – Rote Armee Fraktion (Frazione Armata Rossa) – la classe operaia, sostenuta (pur con tanti difetti), da un sindacato forte, era vigile, politicizzata, irritata dallo sfruttamento capitalistico quasi primordiale che stava subendo, pronta a scioperare, a scendere in piazza, a lottare per i propri diritti. Basti dire che la FIAT dagli operai veniva chiamata “la feroce”.

Il secondo fattore di tensione sociale era la forza del movimento studentesco che, a partire dal 1968 e dal “maggio francese”, si era dimostrato pronto a protestare in massa su base settimanale (ma, a volte, anche quotidiana) in cortei e manifestazioni contro lo svecchiamento dell’Università e il rinnovamento della società che, per dirla con Pasolini, avrebbe dovuto portare anche progresso, non soltanto sviluppo.

Il terzo fattore è la presenza del Partito Comunista Italiano. Di nuovo, ancor più che in Francia (nella Germania Ovest era stato messo al bando nel 1956), il Partito Comunista Italiano era molto più autentico rispetto a quelli, di regime, dei Paesi del patto di Varsavia. Un partito forte, con membri animati dall’entusiasmo, dalla voglia di abbattere le ingiustizie, indebolito solo dal dilemma epocale se rimanere fedele al modello sovietico (e dunque continuare a professare la rivoluzione e la dittatura del proletariato) o convertirsi all’eurocomunismo, quello che tentava di imporsi accettando il confronto elettorale e parlamentare con gli altri partiti.

Il quarto, tra i fattori importanti – fondamentale per comprendere quel terrorismo di destra di cui sono stati complici apparati deviati dello stato e la massoneria, loggia P2 in primis – va individuato nella Guerra fredda. Fortissimo sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1976 il Partito Comunista Italiano ottenne il 34,37% delle preferenze (circa 12,6 milioni di voti) degli Italiani, “rischiando” di salire al potere. Ed entrare nelle stanze del potere avrebbe voluto dire conoscere i segreti militari della NATO, rischio che l’Alleanza atlantica non poteva permettersi di correre, specie se si tiene conto che considerava il PCI alleato e possibile spia di Mosca. L’ascesa del PCI andava, dunque, fermata. Ecco perché alla lotta armata in Italia, che rimane pur sempre un fenomeno autoctono e spontaneamente italiano, non risulteranno estranei, in maniera strumentale, i servizi segreti di altri paesi, primi fra tutti quelli americani e britannici.

Il quinto fattore, fondamentale per inquadrare la lotta armata a sinistra, era un altro aspetto geopolitico. Si temeva che anche l’Italia potesse regredire in nuova dittatura e fare la fine della Spagna franchista, del Portogallo di Salazar, oppure cadere vittima di una colpo di stato militare, come avvenuto in Grecia il 21 aprile 1967, con l’instaurazione della dittatura dei colonnelli.

L’ultimo tra i fattori più importanti era la presenza del Movimento Sociale Italiano (MSI), un partito dichiaratamente neofascista cui era consentito di operare nonostante la Costituzione italiana vieti la “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.

Un paese in mobilitazione costante

Il concatenarsi e il contrasto di tutte queste situazioni, a partire dal 1968 /69, aveva condotto la società italiana ad un intenso, aspro e costante confronto politico. Se si volesse ritornare con la mente all’Italia di quegli anni, si dovrebbe immaginare un paese in mobilitazione costante, in cui durante ogni fine settimana si svolgevano cortei e manifestazioni di massa che spesso sfociavano in scontri, lanci di bombe Molotov, incidenti, atti di violenza con morti, feriti, danni alla proprietà, carrarmati e mezzi blindati nelle strade. Un’Italia in cui le proteste nelle fabbriche erano all’ordine del giorno, così come le occupazioni delle Università. Un’Italia in cui i giovani di destra assaltavano centri sociali e sedi di partito delle forze di sinistra, ma in cui avveniva pure anche l’esatto opposto, in cui si tendevano agguati, a volte mortali, con i giovani di sinistra che avevano in mano un’oggetto diventato simbolico: la chiave inglese Hazet 36 con la quale si colpivano -  in un caso, ma non con premeditazione, anche a morte - gli avversari.

La violenza neofascista di destra

Come detto più su, nel mirino dell’estrema destra neofascista c’era uno stato che essa vedeva debole, corrotto e incapace di garantire ordine. Oltre che dalla volontà di stabilire un ordine gerarchico e un’identità nazionale (nazionalistica) rigida (inserita all’interno del contesto dei “valori dell’Occidente”), oltre che dalla critica oltranzista alla democrazia parlamentare, l’estrema destra era contraddistinta da un anticomunismo radicale.

Stando alle varie ricostruzioni (derivanti dagli atti giuridici, ma anche da inchieste giornalistiche, da ricerche storiografiche e da testimonianze dei protagonisti) nella sua azione la violenza di destra sarebbe stata appoggiata e foraggiata dai servizi segreti deviati e da funzionari di stato che in alcune occasioni si erano fatti promotori di (falliti) tentativi di colpi di stato antidemocratici. Altre volte si sarebbero rivelati rei di depistaggi al fine di complicare e rendere innocue le inchieste della magistratura.

La strategia della tensione

La strategia perseguita era la seguente: l’insicurezza (intesa anche come incolumità fisica), già di per sé provocata dalla mobilitazione a sinistra, andava rafforzata con azioni di estrema violenza che avrebbero dovuto provocare, oltre che l’indignazione, anche una reazione da parte degli Italiani. Negli intenti, si prospettava che quella reazione sarebbe coincisa con la richiesta di una svolta autoritaria da parte degli stessi cittadini, con leggi speciali che avrebbero fatto piazza pulita delle proteste sociali e avrebbero allontanato lo spettro del comunismo.

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È questa la strategia della tensione che ha provocato 151 morti e 804 feriti e, a suon di bombe, alcune delle stragi più luttuose: quella presso la Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre del 1969 (17 morti, decine di feriti), l’attentato al treno a Gioia Tauro in Calabria il 22 luglio 1970 (6 morti, 66 feriti), la Strage di Peteano presso Gorizia il 31 maggio 1972 (3 carabinieri uccisi con un’auto-bomba da parte di Vincenzo Vinciguerra, militante di Ordine Nuovo), l’assalto dinamitardo alla Questura di Milano 17 maggio 1973 (4 morti, 52 feriti), la Strage di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974 (8 morti, oltre 100 feriti tra i partecipanti a una manifestazione antifascista) compiuta dai neofascisti di Ordine Nuovo, la bomba sul treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro (nel tratto ferroviario tra Firenze e Bologna) fatta scoppiare dai militanti dei NAR/Ordine Nero il 4 agosto 1974 (12 morti, 48 feriti) e la tremenda Strage alla Stazione di Bologna del 2 agosto del 1980 che ha provocato ben 85 (stando alcune fonti sarebbero 86) morti e oltre 200 feriti.

La strage del treno Italicus

Per quest’ultima strage sono stati condannati esponenti dei NAR – Nuclei Armati Rivoluzionari, anche se si era parlato di un’ipotesi di terrorismo palestinese come ritorsione per mancato rispetto, da parte dell’Italia, dei dettami segreti del cosiddetto “lodo Moro”, un accordo informale, gestito dai servizi segreti, in base al quale l’Italia negli anni ’70 garantiva una certa tolleranza verso il transito di gruppi palestinesi armati sul proprio territorio in cambio dell’impegno a non compiere attentati in Italia.

La strage alla stazione ferroviaria di Bologna

Qualche anno dopo, il 23 dicembre 1984, c’era stata “Strage di Natale”, con l’esplosione del Rapido 904, sempre all’altezza di San Benedetto Val di Sambro, con 15 morti e 267 feriti.

Oltre alle stragi, furono ben 26 i giovani di sinistra uccisi da militanti di destra. Della trentina di neofascisti morti, alcuni sono stati vittime di attacchi mirati compiuti dalle Brigate Rosse e da Prima Linea, altri di arresti armati, irruzioni e conflitti a fuoco. Alcuni hanno perso la vita maneggiando esplosivi, altri ancora sono rimasti uccisi nei confronti tra gruppi rivali interni alla stessa destra.

La violenza di stato e le trame neofasciste: gli eventi che condussero alla comparsa e della violenza di sinistra

 La sinistra -  già colpita il 1º maggio 1947 in Sicilia, quando una banda armata guidata dal bandito Salvatore Giuliano, probabilmente diretta da qualche centro di potere (mafioso o di stato), a Portella della Ginestra uccise 11 persone durante la festa del lavoro, colpendo contadini e sindacalisti -  aveva iniziato a opporsi ai rigurgiti neofascisti già prima degli anni di piombo. Ma non con le armi, bensì con i moti di piazza.

Ecco alcuni episodi in cui la sinistra è stata vittima di azioni repressive da parte dello stato. Nel luglio del 1960, per protestare contro il governo Tambroni che aveva consentito che il congresso del partito neofascista Movimento sociale italiano (MSI) si svolgesse a Genova, città dalle tradizioni partigiane, si erano registrati scontri di piazza a Genova, Roma, Catania, Licata e a Reggio Emilia dove il 7 luglio la polizia sparò sulla folla uccidendo cinque manifestanti comunisti. Lo stesso giorno la polizia uccise altri due manifestanti a Palermo.

Nel 1962 a Torino, in piazza Statuto, gli operai e diversi gruppi della sinistra extraparlamentare entrano in uno scontro durissimo con la polizia. Nel dicembre 1962 si registrano scontri anche Reggio Calabria, legati a proteste sindacali e tensioni sociali. Nel 1963 si assiste a una dura repressione degli scioperi a Milano, con arresti tra gli operai di Sesto San Giovanni.

I moti di Piazza Statuto, a Torino

In definitiva, prima dell’avvento degli “anni di piombo” e della violenza di sinistra, la polizia e i carabinieri avevano colpito a morte un grande numero di manifestanti e operai.

C’erano poi le trame neofasciste. Nel 1965, all’Hotel Parco dei Principi di Roma si tenne un convegno, al quale parteciparono ufficiali dei servizi segreti, militari ed esponenti dell’estrema destra neofascista, nel corso del quale si posero le basi ideologiche della strategia della tensione.

Tra il 1963 e il 1965 ci saranno le prime trame golpiste con gli ambienti neofascisti che tentano di condizionare la politica italiana, quali il “Piano solo”, un progetto eversivo elaborato nel 1964 al generale Giuseppe Santovito e dal capo di Stato Maggiore dell’Esercito Giovanni De Lorenzo, il tentato golpe di Junio Valerio Borghese del 1970, ma anche l’organizzazione clandestina “La rosa dei venti” ( guidata dal generale Amos Spiazzi e dal generale Vito Miceli dei servizi segreti militari-SID). Nel 1974 c’era stato il cosiddetto "Golpe bianco” di Edgardo Sogno, di carattere eversivo era il Piano di rinascita democratica della Loggia massonica P2 di Licio Gelli.

Inoltre  –  e lo si verrà a sapere solo nel 1990 – in Italia era operativa l’organizzazione Gladio / Stay Behind, sorta in ambito atlantico, ai cui depositi di armi attingevano i gruppi neofascisti, così come la cosiddetta Gladio civile, struttura parallela del Ministero degli interni, dedita ad attività illegali e infiltrazioni, che è stata attiva sino al 1984.

La violenza di sinistra – la radicalizzazione dello scontro

Nel 1968 c’era stato il movimento studentesco, tra il 1969 e il 1970 si assiste all’”autunno caldo”, un periodo di grandi scioperi e mobilitazioni operaie soprattutto nelle fabbriche del Nord che portò a importanti conquiste sociali, quali lo Statuto dei Lavoratori del 1970.

Ed è dal movimento studentesco e dalla mobilitazione operaista che nascono i gruppi che condurranno alla violenza di sinistra, certamente quella di Prima Linea, ma anche quella delle Brigate Rosse, la cui origine va cercata inoltre nella delusione di molti dei militanti nell’azione troppo tiepida del Partito comunista. Un Partito comunista che per cecità ideologica non riconobbe immediatamente la deriva violenta delle BR, considerando, prima, i suoi militanti “compagni che sbagliano”, poi, assistendo lo stato nella opera di smantellamento delle BR.

In quel contesto, il disagio sociale, con lo “stato borghese” inteso come oppressore che stava dalla parte dei padroni, si trasforma in lotta armata, anche perché, scrive Sergio Segio, “vigeva la convinzione che la lotta armata potesse avere un significato di liberazione e di una possibile costruzione di passaggi di una società migliore”. Una lotta armata in cui, ha spiegato Enrico Baglioni, pure lui militante di Prima Linea “il valore della vita veniva soppiantato dal valore dell’ideologia”.

Qual’era lo scopo che si voleva raggiungere? L’instaurazione del comunismo? La risposta non è così semplice. Appare invece che la palingensi dovesse compiersi ed esaurirsi nell’apocalisse. Detto altrimeti, la cosa importante era abbattere lo stato borghese, conquistandone prima lo spazio simbolico ed ideale, poi…si vedrà.

Dal punto di vista odierno, si era trattato di una lettura a lenti sfuocate della realtà, di un aggrapparsi ideologico a modelli quali Mao, Lenin e Che Guevara, trascurando il fatto che nei paesi dei leader appena citati la condizione della classe operaia rimaneva infausta, con il funzionario di partito che veniva a sostituirsi al padrone. I riferimenti militari giungevano dal Vietnam, con l’opposizione armata all’invasione americana e dal Centro e Sud America, con i movimenti di guerriglia urbana come i Tupamaros in Uruguay. Ma forse, prima di tutto, la sinistra armata vedeva la propria azione come un proseguimento della Resistenza antifascista e della lotta partigiana nel corso della Seconda guerra mondiale, quando l’insurrezione non si era trasformata in rivoluzione e nell’avvento di un nuovo sistema sociale, approdando invece su un versante diverso di una nuova “vittoria mutilata”.

Una volta calato il sipario sulla violenza di sinistra, il bilancio sarà luttuoso, con 128 morti, di cui 74 a opera delle Brigate Rosse e 23 da parte di Prima Linea, 11 delle quali non premeditate.

Segnaliamo soltanto gli episodi più eclatanti, primo fra tutti il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro compiuto dalle Brigate Rosse, responsabili pure dell’uccisione del giudice Francesco Coco, del giornalista Carlo Casalegno, del giurista e politico Vittorio Bachelet, del tenente colonnello dei carabinieri Antonio Varisco, del generale dei carabinieri Enrico Riziero Galvaligi, dell’ingegnere e dirigente d'azienda della Montedison Giuseppe Taliercio, del direttore del Petrolchimico di Marghera Sergio Gori. Ma anche, per ritorsione, le BR saranno artefici dell’uccisione di Roberto Peci, fratello del pentito Patrizio Peci e, ancor peggio, del sindacalista Guido Rossa, l’operaio “colpevole” di aver denunciato l’attività di alcuni colleghi vicini alle Brigate Rosse all’interno della fabbrica, colleghi che poi vennero arrestati. Dopo questo omicidio le comuniste BR si videro affibbiare l’etichetta di “fascisti” da parte degli stessi operai.

A Prima Linea, tra i 23 complessivi, sono attribuibili l’omicidio del dirigente della Fiat Carlo Ghilieno, del consigliere provinciale del Movimento sociale italiano Enrico Pedenovi, del responsabile di produzione alla Icmesa di Seveso (l’azienda responsabile della nube tossica di diossina nell'estate del 1976) Paolo Paoletti,  del proprio militante delatore William Vaccher, ma soprattutto quello, controverso, del giudice Emilio Alessandrini nel 1979. Si trattava di quel magistrato che, a differenza di chi lo aveva preceduto, non attribuì agli anarchici la paternità della Strage di Piazza Fontana, bensì, giustamente, alla destra eversiva. Prima, già nel 1972, dei fatti relativi a Piazza Fontana ne aveva fatto la spese anche il commissario Luigi Calabresi, non coinvolto direttamente ma “responsabile morale” della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, indagato immediatamente dopo la strage di Piazza Fontana, indicato ingiustamente per implicazioni nell’attentato. Pinelli, dopo un’interminabile interrogatorio, era caduto, con dinamiche mai chiarite fino in fondo, dal quarto piano della Questura di Milano. L’omicidio di Calabresi è stato compiuto da militanti di Lotta Continua.

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Esternamente ai gruppi organizzati, sono da ricordare gli omicidi di 17 giovani di destra uccisi dai militanti di sinistra.

La fine della lotta armata

Anche se l’ultimo omicidio politico compiuto dalle (neocostituite) Brigate Rosse risale al 2002, quando a Bologna venne ucciso il giuslavorista e consulente del Ministero del Lavoro Marco Biagi, l’esaurimento della lotta armata avverrà nella prima metà degli Anni Ottanta.

Le ragioni sono molteplici. La società era cambiata, all’impegno sociale erano subentrati il disimpegno e l’abbandono all’edonismo reaganiano, lo stato aveva reagito con una legislazione più severa (chiudendo un occhio nei casi di tortura dei militanti arrestati), con l’istituzione delle carceri speciali e dei nuclei antiterrorismo, primo fra tutti quello guidato dal generale Dalla Chiesa, più tardi ucciso a Palermo dalla mafia. Misure, a ben vedere, che avevano condotto a quella “stabilità” che fece crollare la ragion d’essere del terrorismo di destra.

A sinistra, una delle ragioni del fallimento della lotta armata va individuata nell’opposizione della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica e del cittadino comune, nell’esaurimento del movimento studentesco e della mobilitazione operaia dai quali e sui quali, per gran parte, si era alimentata e legittimata la lotta armata che era oramai era diventata una “rivoluzione senza popolo”.

Inoltre,  per stanchezza o perché posti davanti all’evidenza del fallimento del progetto rivoluzionario, in seno alla lotta armata prende piede il fenomeno dei pentiti che si rivelerà fondamentale in funzione dell’arresto dei militanti, ormai quasi tutti in clandestinità.

Anche chi era riuscito a sfuggire all’arresto, come Sergio Segio, si era dissociato. Prima di arrendersi, rimaneva soltanto il compito di liberare i compagni delle carceri. Come? Lo racconta proprio Segio nel suo libro “Miccia Corta” che verrà presentato stasera alla Fiera di Pola.


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