“Pasolini era piuttosto silenzioso, non era un uomo espansivo, però il suo silenzio aveva una forza e un’intensità particolari. Non era un silenzio di assenza: era un silenzio presente. Questo, nella nostra amicizia, è stato molto importante: un silenzio molto intenso”. Oppure: “La gentilezza, per me, non è una formalità: è un modo di stare al mondo, di stabilire rapporti con gli altri sulla base del rispetto e del confronto. Quella è la gentilezza: non la cortesia di facciata, non la semplice educazione.” O ancora: “L’intelligenza artificiale è uno strumento, non è un fine, e come tale va utilizzato”.
Sono queste alcuni esempi dei tanti dei giudizi e delle tante lucide riflessioni della grande scrittrice italiana Dacia Maraini, pronunciati in queste giornate alla Fiera del libro di Pola. Disponibile ad aprirsi, ma con classe, regalando parole stimolanti pronunciate quasi con pudore, nessuna traccia di quell’arroganza che potrebbe giungere dalla fama, due occhi bellissimi, vivi, intelligenti. Una signora di 89 anni che ne dimostra almeno 20 di meno e che trasmette l’eleganza e la saggezza dell’età matura e la vitalità di una gioventù che pare ancora pulsare in lei.
Il femminismo è stato importantissimo
È così che abbiamo visto Dacia Maraini, certamente la più grande letterata italiana vivente e una delle maggiori del Novecento, autrice di romanzi premiati e tradotti in tantissime lingue, ma anche di racconti, poesie, sceneggiature cinematografiche (ha pure diretto un film, scritto da lei stessa, “L’amore coniugale” nel 1970), testi teatrali e tantissimi saggi, molti dei quali dedicati alla condizione della donna. Infatti, oltre che alla letteratura, Dacia Maraini ha dedicato la sua vita al femminismo, alle lotte per l’emancipazione della donna, fondando anche un teatro femminile – La Maddalena: “Oggi le donna sono più libere”, ha detto in un incontro con la stampa, “il femminismo è stato importantissimo. In Italia, per esempio, tutte le leggi che riguardavano la famiglia, il lavoro, la parità, sono cambiate in meglio. Prima avevamo leggi vecchissime, alcune erano addirittura di origine romana. Pensiamo allo ius corrigendi: il padre e il marito avevano il diritto di “correggere” — cioè punire — la moglie o la figlia se si comportavano male. Questa legge è rimasta in vigore fino a pochi decenni fa. Oggi però stiamo vivendo un momento di regressione, non soltanto in questo campo, ma in termini generali”.
Due storie dall'infanzia trascorsa in Giappone
Nata in una famiglia internazionale profondamente antirazzista, con una nonna inglese e l’altra cilena, ha trascorso parte dell’infanzia in Giappone dove, dopo che suo padre aveva rifiutato di dare il suo sostegno alla Repubblica di Salò (lo stato neofascista, vassallo della Germania, costituito dopo la caduta del fascismo in Italia il 25 luglio del 1943) è sta internata per due anni in un campo di concentramento poiché suo padre era sconsiderato “traditore della patria”
In Giappone avevo sei anni e il senso della giustizia era già presente in me. Mi padre si arrabbiò con me perché avevo sporcato un libro con l’inchiostro. Così sono scappata di casa. I miei genitori si sono messi in cerca di me per tutta Tokyo, telefonando anche agli ospedali. Alla sera la polizia di Tokyo telefonò a casa, dicendo di avere in custodia una bambina bionda. Allora i miei genitori sono corsi a prendermi. Dissi loro che non volevo tornare a casa perché mi avevano trattato male. Aggiunsi che volevo diventare una poliziotta giapponese. Mi sentivo Giapponese, per me l’Italia era un luogo esotico.
Quando il padre di Dacia si tagliò apposta un dito. E aveva avuto ragione.
Nel campo di pativa la fame e mio padre protestava dicendo che le bambine, mia sorella e io, eravamo prigioniere politiche, e che non potevano trattarci come prigioniere.” Ma i Giapponesi rispondevano: “Italiani traditori, italiani traditori…”
A un certo punto, mio padre si è arrabbiato perché veramente perché stavamo morendo di fame.
Con addosso un sacco si malattie: beriberi, scorbuto, eravamo anemiche e perdevamo i capelli. Mio padre disse al capo chiamava Kazuya: “Date da mangiare ai bambini, perché loro hanno il diritto di vivere”, ma lui rispose “No, sono figli di traditori.”
A quel punto mio padre prese un’accetta — quella con cui si tagliava la legna — si taglio un dito e l’ho gettò addosso a questo Kazuya. Mio padre, che era antropologo, sapeva che nella cultura giapponese samurai questo yubitsume, questo ‘tagliarsi un dito’ e gettarlo addosso a un'altra persona significa assegnare a quest’ultima un obbligo dal quale on può esimersi.
Lì per lì è stata una cosa terribile: mia madre era svenuta, Kazuya, vestito di bianco ma cosparso del sangue di mio padre aveva urlato, sguainato la spada. Credetti che avrebbe ucciso mio padre. Invece, una settimana dopo — e questa è una cosa incredibile — questo Kazuya ci portò una piccola capra che dava del latte, due o trecento grammi di latte al giorno, e questa capra ci salvò. la vita.
Un libro che nasce da un sogno
Dacia Maraini ha lavorato anche all’adattamento di film stranieri per il pubblico italiano. Uno di questi è stato il dissacrante “Sweet movie” del regista serbo Dušan Makavejev, adattato lavorando a fianco di Pier Paolo Pasolini. Ed è proprio per presentare il suo libro “Caro Pier Paolo”, un racconto epistolare dedicato al suo grande amico Pasolini, che la scrittrice italiana è tornata alla Fiera del libro di Pola per la seconda volta. Questo suo testo, tenero, delicato, ma privo di autocensure, si rivela quasi come un atto un amore, condito anche da un’indulgenza ragionata e mai mielosa, nei confronti delle tante contraddizioni di Pasolini.
Parlando dell’origine del libro Dacia Maraini ha detto: “Ho sognato che Pier Paolo camminava sulla mia terrazza. Sono salita. Lui i ha visto e mi ha detto “Voglio fare un film”. “Racconta” gli ho risposto. Stava iniziando a raccontare quando dietro di me ho sentito le voci dei suoi tecnici, che mi dicevano: “Ma dai, è morto, non può fare un film. Io ero sbalordita, perché per me era vivo, completamente vivo. Continuavo a dirgli: “Racconta, racconta.” Ma loro insistevano: “È morto, lascialo perdere.” Nel frattempo lui è sparito. Questo sogno è stato talmente forte che mi è rimasto impresso. E da lì ho deciso: adesso voglio parlare con lui. Da qui nascono le lettere del libro”.
Un libro che si sofferma su varie vicende risalenti al periodo della loro amicizia (1960-1975, anno dell’omicidio del poeta e regista) e dei viaggi natalizi in Africa, alla ricerca di quella purezza e di quell’innocenza di cui Pasolini, in Italia, avvertiva la perdita. A un viaggio aveva partecipato pure la famosissima cantante lirica Maria Callas, interprete del suo film “Medea” che Pasolini, nonostante sia stato omosessuale, Pasolini aveva amato davvero, anche se non di un amore sessuale. Le altre che gli erano state vicine, la scrittrice Elsa Morante, Laura Betti e la stessa Maraini, erano percepite piuttosto come madri. Infatti, dopo la rottura con il padre, che aveva iniziato a comportarsi male in generale e in particolare con sua madre, Pasolini aveva investito tutto il suo affetto su sua mamma. In una poesia scriverà: “Io non posso amare nessuno, perché per me l’amore vero è mia madre.” Un amore particolare, tanto che la sceglierà per il ruolo di Maria nel suo film “Il vangelo secondo Matteo”.
Un anarchico eretico che dialogava con il sacro
A proposito della religiosità di Pasolini, qualcuno lo ha definito un eretico che non può esimersi dal dialogare con il sacro. “Pasolini non era religioso nel senso tradizionale, non era un cattolico credente, lui era un anarchico. Era stato comunista — almeno così diceva — ma aveva in sé una forte vena anarchica”, ha commentato Dacia Maraini, “però aveva una grande curiosità e un rapporto con il sacro. Con la purezza, anche. Con il sacro nel senso di qualcosa che va al di là della contingenza. Noi viviamo nel mistero: il nostro rapporto col mondo, con l’universo, con il tempo è misterioso”.
“Pasolini mi ha fatto capire l’importanza della poesia recitata”, ha detto ancora la Maraini. “A volte recitava a memoria poesie italiane. Devo dire che aveva la capacità di incantare, di incantare con la poesia. Ricordo momenti in cui magari faceva freddo, o io stavo male, e lui era capace di cambiare l’atmosfera semplicemente recitando una poesia — non una sua, anche di altri. Era nella sua indole, molto di più rispetto alla narrazione. Infatti, dopo gli unici due romanzi, dalla poesia è passato direttamente al cinema”. Che nel caso di Pasolini era anche una forma di poesia.
E poi, in Pasolini, c’era il dolore, quello per tutte le offese subite, i processi, le incomprensioni, tanto che sembra gli si adatti bene il verso del suo amico, il poeta Sandro Penna: “Ed io non so chi voglio amare ormai se non il mio dolore”. “Lui ha sofferto molto di questa persecuzione”, ha rievocato Dacia Maraini, “una vera persecuzione. Però adesso che è morto, quelli che lo avevano denigrato adesso lo prendono come una bandiera. Questo è incredibile.”
Vantaggi e trappole dell’intelligenza artificiale
Riesponendo a una domanda sull’intelligenza artificiale la scrittrice non ha opposto divieti o manifestato fastidi, articolando un ragionamento molto razionale: “L’intelligenza artificiale è uno strumento, non è un fine: è uno strumento. Quindi va utilizzato come uno strumento, va utilizzato bene. È come l’energia atomica: si può uccidere oppure si può produrre energia. Quindi l’importante non è cancellare o eliminare uno strumento, anche perché è importantissimo. Si pensi a quanto di utile fa l’intelligenza artificiale nella medicina, nella scienza: è una grande forza. Non va demonizzata, però va guidata, altrimenti il pericolo è quello di diventarne schiavi.”
E poi “I social io li detesto. Vado molto nelle scuole e vedo che i ragazzi sono schiavi dei social: non leggono più libri, non leggono più niente, non vanno al cinema, non vanno a teatro, solo i social. Quello non va bene. Questa è una dipendenza che svuota la persona la deresponsabilizza. C’è qualcun altro che fa le cose per te. Allora i temi li fanno fare all’intelligenza artificiale, ma anche i problemi della matematica, della scienza, delle ricerche vuol dire che tu non lavori più con la tua testa. Questo è pericoloso, questo non va bene.”
Dunque, una critica al presente, spesso contrassegnato dalla solitudine dell’individuo. Tutt’altra cosa rispetto agli anni Sessanta quando ci si incontrava per il gusto di incontrarsi, non perché si aveva un impegno comune. In questo contesto Dacia Maraini ha ricordato il bar Canova a Piazza del Popolo a Roma, dove senza darsi appuntamento si incontravano i protagonisti della scena culturale italiana dell’epoca, senza sapere che sarebbero finiti nei manuali scolastici: Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Bassani, Goffredo Parise, Natalia Ginzburg, Marcello Mastroianni, Federico Fellini, Bernardo Bertolucci, Carlo Emilio Gadda. Ma anche Alberto Moravia di cui, parole sue, Dacia Maraini si era innamorata perdutamente, in sintonia con Stendhal per il quale “ci si innamora delle persone che sanno fare bene le cose che amiamo”. E Moravia sapeva scrivere benissimo.
“Dacia Maraini Presidente della Repubblica”
Dacia Maraini ci ha dato pure una lezione sull’importanza di non pretender di occuparsi di cose di cui non siamo capaci. Rispondendo a una domanda se mai fosse stata tentata di occuparsi di politica (su FB esiste una pagina “Dacia Maraini Presidente della Repubblica” di cui lei non conosceva l’esistenza) ha detto: “No, penso che le cose non si debbano fare così. Mi hanno proposto molte volte di mettermi in politica, chiedendomi di diventare assessore alla cultura a Venezia o a Palermo. Penso che ci voglia competenza per fare qualunque cosa. Bisogna avere una competenza, prepararsi, vivere una vita. La mia vita è fatta di letteratura. Io ho una competenza letteraria. Credo di avere una competenza letteraria, ma non ho la competenza politica”.
Nata in una famiglia internazionale profondamente antirazzista, con una nonna inglese e l’altra cilena, ha trascorso parte dell’infanzia in Giappone dove, dopo che suo padre aveva rifiutato di dare il suo sostegno alla Repubblica di Salò (lo stato neofascista, vassallo della Germania, costituito dopo la caduta del fascismo in Italia il 25 luglio del 1943) è sta internata per due anni in un campo di concentramento poiché suo padre era sconsiderato “traditore della patria”.
Di questa, che è stata l’esperienza più traumatica della sua vita, ma anche delle libertà (come condizione di creatività e libera espressione) sopraggiunte in Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale (il fascismo aveva messo all’indice Kafka e Dostojevski perché considerati troppo pessimisti), Dacia Maraini ha parlato stamattina durante la “colazione con l’autore” condotta da un ottimo Aljoša Pužar. La sera prima aveva fatto altrettanto bene Andrea Matošević, nel corso della presentazione di „Caro Pier Paolo“ presso la Sala rossa della Casa dei difensori croati. Con loro la traduttrice Erika Koporčić Sovilj.
Concludere dicendo che Dacia Maraini ha incantato tutti non è una frase fatta. Lo dimostrano l’omaggio tutti in piedi giovedì sera a fine presentazione e i 90 secondi di applausi del pubblico stamattina.