Ventiquattro

ABBIAMO PARLATO CON UN TESTIMONE DELLA STRAGE

Bruno Castro era a Vergarolla al momento dell’esplosione: "Ho visto con i miei occhi i corpi dilaniati sia sulla spiaggia, sia in mare. Ho sentito quando è stato attivato il detonatore, quelle mine non sono esplose da sole".

Bruno Castro, oggi novantaduenne che vive in Canada, il 18 agosto 1946, esattamente 79 anni fa, si trovava a Vergarolla al momento dell’esplosione che uccise almeno 65 cittadini di Pola. Per Istra24 ha raccontato i dettagli di quel gesto di guerra in tempo di pace, di come appariva la spiaggia, dove si trovavano le mine, del mare rosso di sangue e dei corpi umani dilaniati sulla spiaggia


 
10 min
Silvio Forza

Bruno Castro, oggi novantaduenne che vive in Canada, il 18 agosto 1946, esattamente 79 anni fa, si trovava a Vergarolla al momento dell’esplosione che uccise almeno 65 cittadini di Pola. Per Istra24 ha raccontato i dettagli di quel gesto di guerra in tempo di pace, di come appariva la spiaggia, dove si trovavano le mine, del mare rosso di sangue e dei corpi umani dilaniati sulla spiaggia

L’esplosione di Vergarolla del 18 agosto 1946 ha causato la morte atroce di almeno 65 persone ma, considerato che molti sono stati i corpi dilaniati, le vittime potrebbero essere certamente di più. Una strage. Eppure per decenni è stata la “strage cancellata” di cui, almeno a Pola e nel reso dell’ex Jugoslavia, non si doveva parlare. Poco contava il fatto che, unitamente ai bombardamenti degli alleati del 1944-45, è stato il  gesto di violenza armata in cui, a memoria d’uomo, ha perso la vita il maggior numero di Polesani.

MANCA UNA VERITÀ PROCESSUALE

Un atto di guerra accaduto in tempo di pace, ma di pace turbolenta. Infatti, alla fine della Seconda guerra mondiale, tra il maggio del 1945 e il 15 settembre del 1947, Pola era governata dall’amministrazione anglo-americana, in attesa di conoscere se la città sarebbe rimasta italiana o se, invece, sarebbe passata alla Jugoslavia.  Un’incertezza, questa, che aveva provocato aspre tensioni che spesso erano sfociate in episodi di violenza e che aveva messo gli uni contro gli altri i cittadini di Pola, all’epoca per la stragrande maggioranza Italiani. Da una parte gli Italiani antifascisti che volevano l’annessione alla Jugoslavia, sostenuti dal movimento comunista jugoslavo operante nella stessa in città e in modo dominante nel resto dell’Istria una volta superato il confine provvisorio di Monte Grande, dall’altra parte gli Italiani, anche loro antifascisti, ma che non era disposti a cambiare stato, regime e lingua, appoggiati praticamente da nessuno se non dal Comitato di Liberazione Nazionale italiano che, operante nel contesto di uno stato che aveva appena perso la guerra, contava poco o nulla sullo scacchiere internazionale.

Il fatto in sé e le conseguenze, sono noti, non lo sono invece, in termini di verità processuale assodata, le cause.

IN SPIAGGIA TANTE FAMIGLIE E BAMBINI

Riepiloghiamo il fatto. La domenica del 18 agosto del 1946, presso la baia di Vergarolla si svolgono delle gare di nuoto organizzate dalla società Pieta Julia. La spiaggia è piena di bagnanti, molte famiglie e tanti bambini. Poco dopo le ore 14 avviene una tremenda esplosione. In base ad alcune fonti si trattava di 28 mine antisbarco, altri parlano di 15-20 mine antisommergibile tedesche, l’inchiesta inglese aveva individuato “tre testate esplosive di siluri, quattro cariche esplosive di tritolo, cinque generatori di fumo", per altri erano mine risalenti ancora alla prima guerra mondiale.  La deflagrazione provoca almeno 65 morti (quasi un terzo bambini o comunque minorenni) i feriti sono 211. Lo sgomento in città è enorme.

La causa? Nonostante le più recenti ricerche presso gli archivi inglesi indicano che si è trattato di un atto terroristico, una verità stabilità da un’inchiesta o da un processo civile e militare non esiste. Si sa, tuttavia, che dalle mine erano state estratti i detonatori,  e già il comandante della 24ª Brigata di fanteria britannica  M.D.Erskine nella relazione finale dell’inchiesta svolta immediatamente dalla Polizia Civile espresse  il parere secondo cui "gli ordigni sono stati deliberatamente fatti esplodere da persona o persone sconosciute".

Tuttavia, a quella prima inchiesta non seguì mai un processo, nemmeno contro ignoti, per cui con il tempo si sono generate varie teorie: la più assurda è quella che ad attivare le mine, gettandovi sopra una griglia ardente,  sarebbe stato l’ex capitano di un sommergibile italiano, il Polesano Vittorio Saccon, ubriaco e amareggiato per il possibile passaggio di Pola alla Jugoslavia. La verità è che quella dei Saccon, famiglia di scalpellini che a Vergarolla ha perse molto dei suoi membri, è diventata la tomba di Monte Giro che racchiude il maggior numero di vittime della strage.

CHI HA COMPIUTO LA STRAGE?

L’ipotesi più sostenuta è quella che a organizzare l’attentato sarebbero stati i servizi jugoslavi, per mano del sabotatore membro dell’OZNA Giuseppe Kovacich, a scopo intimidatorio contro gli Italiani, per farli abbandonare la città. Si sono sentite anche voci opposte e per le quali dietro alla strage ci sarebbe stata la regia dei servizi segreti italiani che avrebbero operato badando di far ricadere la colpa sulla Jugoslavia. Ma in generale, in epoca Jugoslava, forse anche per via del fatto che Tito di Vergarolla non aveva parlato mai, si preferì far cadere l’episodio nell’oblio, cosicché la maggioranza dei nuovi abitanti di Pola, che ormai da decenni rappresentano la maggioranza in città, fino alla fine degli anni Novanta del secolo scorso mai avevano sentito parlare della strage. Non ne sapevano nulla.

Le conseguenze? L’assenza di una verità processuale, pur tenendo conto del fatto che le stragi come crimine non vanno mai in prescrizione, non impedisce di giungere a una conclusione lampante. Indipendentemente dalla cause e dai colpevoli, “quella”, come ebbe a dire la scrittrice poetessa polesana Ester Barlessi, “è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso” ed è proprio dopo quel fatto che tanti Polesani italiani decisero di abbandonare la città perché non erano disposti a vivere in quella Jugoslavia immediatamente percepita come mandante di quell’atto terroristico.

UNA FOTOGRAFIA STRAZIANTE

Per moltissimi anni, una delle pochissime foto della strage di Vergarolla è stata quella del grande fungo di fumo levatasi al cielo dopo l’esplosione, scattata dal farmacista Antonio Rodinis. Più tardi è comparsa una seconda foto, straziante, in cui si vede un uomo reggere il corpo di una bambina la cui testa era stata quasi completamente staccata dal collo. L’autore della foto è ignoto, ma quell’uomo che ha tentato di porgere aiuto alla sfortunata bambina era Mario Angelini, nonno del nostro fotoreporter Manuel Angelini e cognato di Bruno Castro, Polesano che da anni vive a Toronto, in Canada, ma che quel 18 agosto del 1946, all’età di 14 anni, era presente in spiaggia, a Vergarolla.

Pur essendo novantaduenne, Bruno Castro ha ancora la mente lucida, lo abbiamo contatta e ci ha raccontato parecchi dettagli. La prima domanda che gli abbiamo fatto riguardava proprio la foto che citavamo prima.

Può confermare che l’uomo che porge soccorso alla bambina in quella foto è Mario Angelini?

Certamente, era mio cognato, il marito di mia sorella Lucilla che il giorno dopo è entrata in travaglio da shock dopo aver scoperto che tra i morti c’era la sua migliore amica. Mio cugino Gianna nacque a sette mesi.  Mario era di Rovigno ma abitava a Pola dove faceva anche l’allenatore di nuoto..Dopo aver deposto quella bambina sul camion che trasportava morti e feriti mi disse, urlando di correre a casa da mia mamma.

Ha mai scoperto chi sia l’autore di quella fotografia?

No, ma so che Mario aveva anche altre foto della strage di Vergarolla e, siccome era volontario dei vigili del fuoco, possedeva pure fotografie dei corpi recuperati nelle foibe.  Aveva dato una mano con le vittime delle foibe anche perché sperava di trovare suo fratello, finito in foiba senza che avesse colpa alcuna. Le ha distrutte tutte quelle foto, aveva paura, temeva che gli avrebbero provocato dei problemi con le autorità jugoslave dell’epoca. Mario è morto ormai vent’anni fa.

Mario Angelini

Anche lei quella domenica si trovava a Vergarolla.

Si, io ero lì per le gare di nuoto, in mattinata avevo gareggiato nei 400 metri. Poi, in attesa della gara pomeridiana, ero rimasto in spiaggia con i miei amici, mi ricordo che con me c’erano Diego Marassovich, Mario Calci, Livio Giachin e Alessandro Ghersin. Tutto era sereno, sembrava di partecipare a una festa, a uno di quegli eventi che qui in Canada vengono chiamati pic-nic. Ma poi c’è stata l’esplosione.

Dove si trovava lei esattamente al momento dello scoppio e quale è stato il punto dell’esplosione?

Se ci immaginiamo di guardare la baia di Vergarolla dalla terra verso il mare, io ero più spostato sulla destra, dove c’era un edificio con terrazzo che era quella della società natatoria Pietas Julia. Dunque, stiamo parlando della zona adiacente al cantiere “Stella Rossa”. Quella sede della Pietas Julia è stata gravemente colpita dall’esplosione e poi successivamente demolita del tutto, tanto che oggi non ne rimane traccia. L’esplosione, invece, è avvenuta dalla parte sinistra, vicino al molo che anche oggi sta là. C’è da dire che la baia era divisa da un muro. Nella parte destra si trovava la zona civile, nella parte sinistra quella militare.

Dunque l’esplosione è avvenuta nella zona militare, divisa dalla zona civile da un muro. Eppure ha provocato tante vittime.

Le ragioni sono molte. La prima è che l’esplosione è stata violentissima. Poi si deve osservare che la guerra era finita, la città era amministrata dagli anglo -americani che su un’area della marina militare, come quella di Vergarolla, all’epoca non attiva, in un momento in cui a Pola non c’era più una marina italiana, né c’era ancora una marina jugoslava, non esercitavano un controllo severo. Ciò vuol dire che si poteva passare tranquillamente dalla parte civile a quella militare superando il muro e bagnandosi solo i piedi, e quando c’era bassa mare neanche quelli. Inoltre nella zona militare c’erano tanti bagnanti giunti in barca, con tante barche ormeggiate di fronte. La stragrande maggioranza delle vittime si trovava nella zona militare.

Lei a Vergarolla c’era stato anche prima?

Si, parecchie volte. All’epoca noi ragazzini giocavamo con gli esplosivi, andavano a cercare tritolo nell’area della fabbrica di bandiere a Fisella, fermandoci spesso a Vergarolla, attirati proprio da quelle mine. Abbiamo anche tentato di recuperare il tritolo dalle mine di Vergarolla, ma era impossibile, erano state messe in sicurezze.

Eppure sono esplose. Si ricorda di quel momento esatto?

Stavamo giocando alle manette (un gioco in cui si devono prendere in mano da uno a cinque sassi raccogliendoli da una pietra mentre gli altri vengono gettati in aria per poi agguantarli tutti) e abbiamo sentito un colpo, come uno sparo di pistola. Poco dopo è avvenuta la grande esplosione.

Quanto dopo?

Circa dieci secondi dopo, forse meno.

E secondo lei quello sparo cos’è era stato?

Molto probabilmente l’innesco di un detonatore. Quelle mine non sono esplose da sole per autocombustione.

Lei quelle mine le aveva già viste. Potrebbe descriverle?

Da quanto mi ricordo c’erano sia mine sferiche, quelle tipiche da mare con le “corna”, ma anche altre cilindriche, simili a bombole del gas, sulle quali ci sedevamo a cavalcioni. Poi ho saputo che quelle erano mine anti incursione che venivano unite e servivano per chiudere l’imboccatura del porto di Pola. Seconde me alcune risalivano ancora la alla Prima guerra mondiale.

Si legge spesso che si trattava di 28 mine, per un totale di 9 tonnellate di tritolo, e che sarebbero esplose tutte. Lei può confermare questo dato?

Non posso dire con certezza se siano esplose tutte o meno. Ma so che è stata un’esplosione violentissima. In un primo momento siamo stati travolti dal fumo, non vedevamo nulla, poi abbiamo visto delle scene strazianti. Il mare era diventato rosso di sangue, alcuni alberi avevano preso fuoco Mi ricordo le urla e i pianti. E non era quella la prima volta che vedevo la morte. Io abitavo alle Palazzine, nella Palazina dei sette cantoni, ma spesso andavo a giocare sul Monte delle Baracche, presso la cava Max, e lì nel maggio del 1945 avevo visto i cadaveri sia di soldati tedeschi, sia di partigiani. Ma a Vergarolla era molto peggio, i corpi erano stati mutilati.

C’è chi sostiene che tutte le persone morte si trovavano in spiaggia e non in mare – diventate cibo per i gabbiani - e che non c’erano corpi dilaniati.

Io quel giorno ero lì e ho visto con i miei occhi i corpi dilaniati sia sulla spiaggia, sia in mare. Non posso sostenere con certezza che parti di corpi umani erano volate anche tra i rami degli alberi, ma so di certo che da quei rami dopo l’esplosione pendevano tanti indumenti. Devo aggiungere che, dopo essermela data a gambe, a Vergarolla ci sono tornato una ventina di minuti dopo l’esplosione e i gabbiani erano ancora lì e il loro cibo erano resti umani.

Foto dei nuotatori scattata il 18 agosto 1946, lo stesso giorno della strage. La freccia inidica Mario Angelini, Bruno Castro è accovacciato, il terzo da destra verso sinistra

Lei si ricorda se quella gara di nuoto era stata organizzata come manifestazione filoitaliana?

Io all’epoca avevano 14 anni e non capivo molto di politica, ma so che quella gara di nuoto era la Coppa Scarioni e i vincitori si sarebbero qualificati per partecipare ad altre prove della coppa che si svolgevano in Italia. Chi aveva organizzato l’evento si riteneva dunque parte del mondo sportivo italiano.

Si ricorda dei commenti, sentiti magari in casa, dopo quel terribile evento

Non mi ricordo molto, mi è rimasto solo impresso il fatto che come sospettato del crimine veniva nominato un uomo vestito di grigio o di nero che era stato visto aggirarsi nella zone delle mine.

Lei si è trasferito in Canada solo nel 1963, dunque a esodo ormai concluso.

I miei genitori decisero di restare perché mio padre era comunista convinto. Io me ne sono andato quando ho capito che le promesse di eguaglianza erano state disattese, l’italiano, la mia lingua, era stata messa da parte e dunque recise le ali a tutte le mie speranze di costruire un futuro rispettoso della mia identità per me e la mia famiglia.

A Pola ci è mai tornato?

Certo. Tantissime volte, anche con le mie figlie e i miei nipoti. A Pola ho tanti parenti, persone care e tanti ricordi d’infanzia e della prima gioventù. Dentro sono rimasto sempre Polesano.


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Pula
 

Bruno Castro bio je na Vargaroli u trenutku eksplozije: "Vlastitim sam očima vidio raskomadana tijela i na plaži i u moru. Čuo sam kad se aktivirao detonator, te mine nisu eksplodirale same od sebe"

Bruno Castro, danas 92-godišnjak koji živi u Kanadi, 18. kolovoza 1946., dakle prije točno 79 godina, nalazio se na Vargaroli u trenutku eksplozije koja je ubila najmanje 65. građana Pule. Za Istru24 ispričao je detalje o tom ratnom činu u mirnodopsko vrijeme, o tome kako je izgledala plaža, gdje su se nalazile mine, moru crvenom od krvi i raskomadanim ljudskim tijelima po plaži

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